Lavoro per mio marito

“Mi chiamo Valeria. Lavoro per mio marito. Mia sorella dice che sono in pericolo. Ho trovato finalmente un lavoro perfetto, migliore di tanti. Faccio 8 ore al giorno. Vengo pagata regolarmente a settimana. Che differenza c’è se il mio datore di lavoro è mio marito? Mia sorella dice che sono una molf (moglie e colf insieme). Lei dice che il mio non è un vero lavoro, ma la sua è solo invidia. In questa conversazione che vi mando mia sorella mi ha insultato pesantemente. Ci sono rimasta male e vi invio la chat per avere il parere della community di donne e mamme e lavoratrici che ci sono in questa pagina. Io penso di essere fortunata ad avere trovato questo lavoro. Sono più fortunata di tante altre che devono farsi due ore di macchina all’andata e due ore al ritorno, imbottigliate nel traffico. Sono più fortunata di tante che devono fare mille concorsi e che stanno con gli occhi pieni di lacrime dietro l’ennesima graduatoria in cui non sono tra i vincitori. Sono più fortunata di tante che devono accontentarsi di una paga più bassa dei loro colleghi perché sono donne. Sono più fortunata di tante che devono sorridere alle pacche del capo, troppo in basso per essere definite sulla schiena. Mia sorella però dice che non è così e che anzi sono in pericolo. Voi cosa ne pensate?”

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Valeria condivide la sua storia e il suo punto di vista su una questione che ha scatenato un acceso confronto con sua sorella. Lavora infatti per suo marito, in un impiego che considera perfetto per le sue esigenze. Descrive il lavoro come un’occupazione di otto ore giornaliere, con un pagamento regolare settimanale. Dal suo punto di vista, il fatto che il datore di lavoro sia il marito non rende meno autentico il suo impegno o il valore del suo lavoro. Tuttavia, sua sorella ha un’opinione completamente diversa e non perde occasione per criticarla.

Sua sorella sostiene che questo impiego non sia un “vero lavoro” e si spinge a definirla “molf,” una combinazione di moglie e colf, insinuando che si tratti di un ruolo subalterno più che di una vera occupazione. Valeria si sente offesa e amareggiata per queste parole, che percepisce come il frutto di un’invidia infondata. Secondo lei, la sorella non riconosce la fortuna di aver trovato una posizione che le permette una stabilità economica e una certa comodità rispetto a molti altri lavori.

Valeria si paragona infatti a tante donne che, per svolgere il proprio impiego, devono affrontare lunghe ore di viaggio nel traffico, o che lottano per posizioni di lavoro tramite concorsi, solo per poi rimanere escluse dalle graduatorie, spesso con le lacrime agli occhi. Sottolinea anche la fortuna di non trovarsi in ambienti di lavoro dove le donne sono costrette ad accettare salari più bassi rispetto ai colleghi uomini, o a subire atteggiamenti sgradevoli da parte dei superiori. Per lei, il lavoro che svolge rappresenta una situazione privilegiata, e ritiene ingiusto il giudizio di sua sorella, che non vede le cose dalla stessa prospettiva.

La sorella, però, continua a sostenere che Valeria sia in una posizione di pericolo, forse vedendo nel rapporto di lavoro coniugale un rischio per l’indipendenza e l’equilibrio personale di Valeria. Sentendosi ferita dagli insulti della sorella e dubbiosa sulle sue reali intenzioni, Valeria cerca l’opinione di altre donne, mamme e lavoratrici, sperando che possano fornirle un punto di vista esterno e supportarla in questa riflessione sulla propria scelta lavorativa.

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