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Incredibile ma vero, un’intera orchestra composta da musicisti umani è stata diretta da un robot. Si tratta del direttore Alter 3, che ha guidato il complesso nel corso di Scary Beauty, la prima opera di questo genere mai realizzata nella storia dell’umanità (e degli androidi). A creare questo talentuoso robot è stato lo scienziato Takashi Ikegami.
Non mancano somiglianze tra la sua creatura e gli esseri umani. In primo luogo, le fattezze di Alter 3: viso e collo sono rivestiti da una pelle prostetica, mentre il resto del corpo è un intrico di circuiti e meccanismi in vista. Ciò che più colpisce di questo robot musicista è la sua incredibile espressività, che si traduce in sorrisi, cenni e movenze che trasmettono la sensazione che l’androide sia in grado di provare emozioni, proprio come noi. Del resto, lo stesso Ikegami ha dichiarato che Alter 3 non si limita a far finta di sentire le emozioni, ma è in grado di viverle, a modo suo.
Secondo il papà del robot musicista, in particolare, l’androide è in grado di sperimentare sentimenti generati dall’interazione tra il suo corpo e l’ambiente circostante. Lo scienziato, tuttavia, ha precisato che le sensazioni di Alter 3 sono estremamente diverse dalle nostre, al punto che descriverle con le stesse parole che usiamo per definire le emozioni umane è impossibile.
Non tutti, naturalmente, sono d’accordo con la visione di Ikegami. Secondo il dottor Newquist, studioso di Intelligenza Artificiale, il robot si limiterebbe semplicemente a interpretare una serie di dati fisici, senza sperimentare alcuna forma di coinvolgimento emotivo. Perché, allora, guardando le performance di Alter 3 ci sentiamo così emozionati e abbiamo la sensazione che l’androide stesso stia provando profondi sentimenti di commozione?
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A rispondere a questo affascinante interrogativo è stato uno studio condotto da un team di scienziati della California. Gli studiosi hanno dimostrato che le espressioni facciali dei robot possono suscitare empatia e connessione, perché i nostri neuroni specchio si attivano permettendoci si sentire ciò che l’altro prova – o, quantomeno, sembra provare.
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