Giulia Tofana, la donna che uccise 600 uomini con il suo make-up

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Giulia Tofana, la donna che uccise 600 uomini con il suo make-up

| 10/04/2024
Fonte: Facebook

Alchimista e fattucchiera vissuta nel XVII secolo, Giulia Tofana costruì un impero vendendo alle donne un micidiale prodotto di bellezza

  • Nel passato i matrimoni combinati erano una regola nelle famiglie
  • Le donne che sposavano uomini violenti potevano solo sperare di rimanere vedove per vivere una vita tranquilla
  • Nell’Italia del Rinascimento Giulia Tofana fu una fattucchiera e alchimista che vendeva alle donne un veleno per sbarazzarsi dei loro mariti
  • Il prodotto era camuffato da cosmetico per le imperfezioni della pelle
  • Il veleno era tale da causare una morte insospettabile

 

Nelle società del passato le donne non avevano potere decisionale e dovevano sottostare a matrimoni combinati dalle famiglie per interessi politici e economici. Quando si sposavano, potevano sperare di essere trattate decentemente dal marito ma, nella maggior parte dei casi, andavano incontro a situazioni di sottomissione e violenze. Una delle più grandi ambizioni delle donne dopo il matrimonio, per avere una vita tranquilla, era quella di rimanere vedove.

I prodotti di bellezza letali

In molti casi le occasioni per trasformare l’ambizione in realtà non mancavano. Uno dei modi più rapidi e semplici con cui una donna poteva liberarsi del marito era l’uso del veleno.

Nell’Italia del 1600 nessuno ha maneggiato il veleno con maggior destrezza di Giulia Tofana, una fattucchiera e alchimista considerata una serial killer sui generis, che vendeva alle donne intrappolate in matrimoni combinati il veleno da somministrare ai mariti.

Giulia era a capo di una rete che si estendeva attraverso la Sicilia, Napoli e Roma, fornendo un servizio molto richiesto tra gli anni dal 1630 al 1655. Il suo impero occulto comprendeva donne astute, farmacisti senza scrupoli, ecclesiastici corrotti che si occupavano della vendita e distribuzione delle sostanze letali. Poco si sa della vita della donna. La madre Theofania D’Adamo (o la zia, a seconda delle fonti) fu giustiziata a Palermo nel 1633 con l’accusa di aver avvelenato il marito Francesco. Giulia potrebbe aver quindi appreso in famiglia le prime nozioni sui veleni. Anche lei si sposò ma rimase presto vedova e si trasferì con la figlia dalla Sicilia prima a Napoli e poi a Roma.

L’Acqua Tofana

Con l’aiuto della figlia e di un gruppo di fidati collaboratori avviò un commercio di cosmetici che però era solo una copertura per la vendita di un prodotto micidiale, l’Acqua Tofana: un intruglio spacciato come normale cosmetico dell’epoca, che però conteneva piombo, arsenico e belladonna. Era inodore, incolore e insapore, ma mescolato con altri liquidi o nel cibo, produceva il suo effetto letale. La bottiglia di vetro, sebbene fosse conosciuta dalle clienti per le sue “proprietà”, era etichettata come “manna di San Nicola di Bari”, che all’epoca era un olio curativo per le imperfezioni della pelle. C’era anche una versione venduta come cipria in polvere.

La prima dose causava spossatezza e debolezza fisica. La seconda dose provocava dolori di stomaco, vomito e dissenteria. La terza o la quarta dose avrebbero fatto il resto. Il metodo di somministrazione e l’effetto a rilascio lento del veleno ingannavano medici e investigatori secondo cui la morte era causata da qualche malattia sconosciuta.

Giulia non solo vendeva il veleno, ma anche le istruzioni pratiche di comportamento per le donne dopo la morte dei mariti. Insegnava loro a piangere e a mostrarsi addolorate e a chiedere un esame del medico legale sulle cause della morte, per risultare a di sopra di ogni sospetto.

Una fitta rete di collaboratori

La fattucchiera non era certo sprovveduta, e vendeva i suoi prodotti solo a donne che conosceva personalmente o la cui affidabilità era stata accertata per via di raccomandazioni o controlli da parte di persone fidate all’interno della sua rete.

Giulia, donna bellissima e spregiudicata, intratteneva relazioni amorose con prelati da cui otteneva protezioni e appoggi nei suoi traffici. A tradirla fu una cliente sprovveduta che, impaziente di veder morire il marito, versò l’intera boccetta nella zuppa causando il decesso istantaneo dell’uomo e scatenando i sospetti dei parenti. L’indagine dell’Inquisizione arrivò all’alchimista che fu arrestata e torturata. Confessò di aver avuto oltre 600 clienti, di cui 46 furono rintracciate e a loro volta messe in prigione, sottoposte a processo e nella maggior parte dei casi uccise per impiccagione.

Sulla fine di Giulia Tofana le fonti si dividono: secondo alcune, fece perdere le sue tracce per intercessione dei suoi amanti nel clero. Il processo a suo carico si sarebbe concluso con l’assoluzione. L’Acqua Tofana fu riconosciuta come un semplice prodotto di bellezza per la pelle e chi la vendeva non era responsabile se le clienti ne facevano un uso differente.

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Secondo altre fonti la donna fu invece portata al patibolo al pari delle sue clienti. Qualunque sia stata la fine di Giulia Tofana, la sua figura ancora oggi alimenta il dibattito. Era da considerare una serial killer che costruì una fortuna vendendo veleni per omicidi, oppure fu la salvatrice di tante donne condannate ad una vita coniugale infelice, fatta di maltrattamenti e violenze?

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